Se dovessero
chiedermi di nominare una persona che ha contribuito a plasmare la mia infanzia
sei tu.
Che se le
ragazzine iniziavano a farsi le foto con le labbra da papera (duck face) e
ascoltare la pessima musica commerciale dell’epoca, io dopo i primi gol
giocando in piazza con gli amici tiravo fuori la linguaccia e scuotevo la
testa.
Non credo di
esser mai riuscito ad essere come te, ma se fosse stato così facile tu non saresti
stato colui che sei ora, e il mio discreto mancino è buono la metà del tuo.
E sei
destrorso.
Che sei
sempre stato legato alla tua squadra, mettendola sempre al primo posto, con il
simbolo sul petto che contava molto più del nome o del numero sulla maglia.
Già, il
numero, il numero dieci della storia italiana, con Baggio, che più ha
rappresentato la classe, l’eleganza e soprattutto la gioia nel giocare a
calcio.
Come hai
sempre fatto d’altronde, quando eri sempre il più piccolo ma giocavi con i tuoi
amichetti del quartiere. Proprio come me. Proprio come buona parte dei ragazzi
della mia generazione.
Sono
addirittura arrivato ad odiare il fatto di non riuscire ad essere come te. Ci
ho provato con tutto me stesso da ragazzo, ma non ce l’ho fatta.
Ci son
diversi tipi di giocatori che questa loro forma di superiorità palese, talvolta
tendente all’onnipotenza, la utilizzano con superbia. Io, ancora oggi, quando
vado a giocare a calcetto e faccio una bella partita, sento talvolta la
necessità di volerlo urlare al mondo intero. Figurarsi gente del calibro di
Ibrahimovic&co , come è normale che sia. Probabilmente farei lo stesso nei
loro panni, quindi inutile fingersi ipocriti.
Tu no, tu te
ne freghi. Non ti ho visto mai incazzato coi tuoi compagni perché sbagliavano
un passaggio, piuttosto che in panchina con l’allenatore (e ce ne sarebbero
state di occasioni, vero?) o in sala stampa per un intervista, piuttosto che in
un qualunque video di Youtube di te in giro.
Come fai?
Stai sulle tue e quando succede qualcosa hai come l’atteggiamento di chi
volesse far apparire tutto come calmo, tranquillo, normale.
Due volte
solo ti ho visto diverso.
18-02-2001,
Bari.
Fine primo
tempo di una partita che sembra destinata a finire sullo 0-0, con la Juventus
che non riesce a incidere come al solito.
Alex fa
riscaldamento. Magari il corpo si riscalda, ma dentro sembra freddo come il
ghiaccio. Cinque giorni prima è venuto a mancare suo padre, Gino, classico
lavoratore che ha passato la vita a farsi il mazzo per sperare di dare un
futuro migliore ai suoi figli.
Ancellotti,
che lecitamente aveva scelto di lasciarlo in panchina fino a quel momento, si
rende conto che c’è bisogno di qualcuno che dia la scossa in più. Lo fa
riscaldare più intensamente, sa che potrebbe aver bisogno di lui.
63° minuto,
tocca a te.
Ti togli il
giaccone ed entri senza lasciar trasparire emozioni.
Giochi bene,
ma sei silenzioso. Non parli, non ti lamenti, sembri quasi uno che è li perché
deve fare semplicemente il suo lavoro e deve svegliarsi il lunedì mattina alle
7. Però giochi bene, lo stesso.
Però sembra
tu non ti diverta, comprensibile.
Nella testa
però mi sorge un dubbio. Com’è possibile?
Se penso a
qualcuno che si diverte giocando a calcio, nel 2018, nel 90% dei casi o penso a
te o penso a Ronaldinho.
Allora sei
anche tu umano, hai anche tu dei difetti.
Ti ho sempre
visto come un semi-Dio, capace di cose che la maggior parte delle altre persone
non arriva neanche a pensare lontanamente.
Senza
difetti, impeccabile. Per la prima volta mi rendo conto che non è così.
Minuto 81.
Prendi palla
sulla fascia, giù la testa e dritto a correre in direzione della porta. Poi
inizi a danzare. Si, perché quelli più che semplici movimenti erano decisamente
tendenti a un passo di danza. Doppio passo, finta di corpo e difensore al bar,
pallone sul sinistro da posizione defilata, il portiere esce, tocco sotto,
pallonetto che scavalca il portiere.
Poi l’urlo
di gioia. Tutti gli juventini sono in festa, tutti i tuoi compagni gridano di
gioia, persino Ancellotti si scompone. Sembra strano a dirlo, ma proprio quello
che per tutta la partita non aveva emesso un fiato, emise l’urlo più forte di
tutti. Scrollarsi di dosso tutta quella sofferenza e quel senso di vuoto che
solo la morte di un padre può dare.
Il secondo
momento in cui ti ho notato diverso è una notte che tutti gli Italiani bene o
male ricordano o hanno visto negli anni a seguire.
4 Luglio del
2006, Westfalenstadion di Dortmund, semi-finale dei Mondiali di Germania 2006.
Una partita
che l’Italia gioca dominando in terra tedesca, pur non riuscendo a
concretizzare. Non bastano i tempi regolamentari per decretare un vincitore,
quindi Marcello Lippi, all’epoca allenatore dell’Italia, ti fa entrare alla
fine del primo tempo supplementare. Tutto sommato, l’ipotesi dei rigori è
concreta, perciò puoi essere un’arma in più. Dopo il goal di Grosso al 119°
minuto, in cui probabilmente l’Italia è stata in uno dei momenti più alti a
livello calcistico degli ultimi 25 anni, tutta la Germania si lancia in
attacco, sperando in 60 secondi di riuscire a impattarla magari lanciando il
pallone in area e con le torri.
Fortunatamente
noi in campo di torri difensive ne avevamo due abbastanza bravine chiamate
Marco Materazzi (decisivo in finale) e Fabio Cannavaro (all’epoca capitano).
Di li in poi
ricordo la telecronaca a memoria.
E cito:
“Arriva il pallone, lo mette fuori Cannavaro, poi ancora insiste Podolski,
Cannavaro, Cannavaro, via il contropiede per Totti, dentro il pallone per
Gilardino.” Nel frattempo c’è un giocatore che appena Cannavaro ha spazzato il
pallone, ha iniziato a correre per 70 metri come se fosse l’ultima corsa della
sua vita. Quel giocatore sei tu, anche se hai il 7 sulla schiena e non il 10.
“Gilardino la può tenere anche vicino alla bandierina, cerca l’uno contro uno,
Gilardino, dentro Del Piero, Del Piero, gooooooooooal”. Il goal che chiude la
partita e da in mano agli azzurri la qualificazione per la finale contro la
Francia. Lui lì urla di nuovo, e corre verso la bandierina. La corsa più bella
di sempre. Ma quello che gli interessa non è in campo, bensì in tribuna. Li
doveva esserci seduta sua moglie, che però non c’è. Poi Alex guarda il
maxi-schermo, e come tutti noi italiani collegati alla tv, vede sua moglie
Sonia in lacrime.
Stavolta
invece è uscito dai ranghi per gridare al mondo :“Io sono qui, sono Alessandro
Del Piero, e tutti devono saperlo”.
E credo lo
sappiano proprio tutti, Alex, quanto tu e il tuo modo di essere siate speciali,
sia dentro che fuori dal campo.
Un giocatore
che voleva apparire normale, solo in due occasioni ha detto a tutti (escludendo
l’aspetto tecnico/tattico e le partite sul campo) urlando chi effettivamente
fosse, e come dovesse essere considerato. Mai una parola fuori posto, assurdo.
Beh dai, io
vado Alex, preparo le scarpe che stasera vado a giocare a calcetto. Sicuramente
non farò i goal alla Del Piero, ma la felicità che mi porto dietro da quando
ero piccolo di fare la linguaccia a ogni goal non potrà mai diminuire.
Ah, un
ultima cosa, ho smesso presto di odiare il non poter essere come te. Mi sono
reso conto che se ci fossi riuscito io, avrebbe potuto farlo chiunque altro nel
mondo, e tu non saresti stato quello che invece hai sempre rappresentato per
me.
Quindi
grazie Alex, per quello che hai dato al calcio italiano e mondiale, e smettila
di auto-considerarti come gli altri, che di Del Piero c’è n’è uno solo.
Purtroppo,
direbbero molti.
Per fortuna,
dico io.
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