Angelo Guaccio, un italo-brasiliano alla conquista di Piacenza



Qualche giorno fa sono andato a vedere gara 1 tra Bakery Piacenza e Urania Milano, valida per le semifinali Playoff di Serie B, e ho colto l’occasione per intervistare un amico, nonché giocatore tra le fila dei biancorossi piacentini, Angelo Guaccio.
I: “Da dove cominciare se non dalle origini, hai sempre avuto con te il numero 19, c’è un motivo in particolare?”
A: “Beh, io ho iniziato a giocare a basket relativamente tardi, a Bordighera, in Under 15.
Giocando con i più grandi d’età l’unico numero disponibile era il 19 ed ho dovuto utilizzare quello; l’anno successivo ho cambiato squadra, andando a Loano, e si è ripresentata la stessa situazione: da li ho portato sempre lo stesso numero.”

I: “Questa stagione, anche se (fortunatamente) non si è ancora conclusa, può essere considerata come una stagione positiva; cosa ti porti dietro da quest’annata?”
A: “E’ stato un anno di crescita sotto l’aspetto del gioco, e di conseguenza una mia maturazione; tengo meglio il campo, riesco a fare ciò che è più utile alla squadra e mi sento più solido da entrambi i lati del campo.”

I: “Ti sei già posto obbiettivi per questo e per il prossimo anno?”
A: “Beh, l’obbiettivo che ci eravamo prefissati ad inizio stagione era quello di vincere il campionato, quindi vogliamo dare il massimo per cercare di riuscirci. Per il prossimo anno ci sarà tempo per pensarci, prima pensiamo a finire al meglio questa stagione.”
I: “Ti ispiri a qualche giocatore in particolare? Qualcuno che magari da piccolo hai visto giocare e ti ha fatto pensare che magari un giorno saresti potuto diventare come lui?”
A: “Quando ho iniziato a seguire la NBA era l’epoca (anche se verso fine carriera) di Kobe, ma non posso dire che è il mio idolo, in quanto non mi ispiro a dei realizzatori. Il mio giocatore preferito è Kawhi Leonard, in quanto sa fare bene la fase offensiva tanto quanto quella difensiva.”

I: “Quindi tu prediligi la difesa all’attacco…”
A: “In teoria si, in pratica mi ci devo ancora applicare molto.”
I: “Oltre ad atleta presumo tu sia anche tifoso, è cosi? Per quale squadra tifi?”
A: “Beh, quando ho iniziato a giocare in Italia andava per la maggiore la Montepaschi Siena, quindi come molti, iniziando a seguire, sono stato attratto da questa società, ma più che tifo diciamo che simpatizzo”
I: “Domanda secca, NBA o EuroLeague? E perché?”
A: “Euroleague. L’NBA è più considerabile come uno spettacolo, un business; In Euroleague, invece, il gioco è al centro di tutto.”

I: “Passiamo all’argomento tifosi, invece; l’atmosfera a palazzo sembra essere abbastanza  calda. Tu che questo lo vivi dall’ interno, come protagonista,  quanto pensi che il pubblico (che sia casa o trasferta) faccia effettivamente la differenza?”
A: “Sicuramente un pubblico caldo, nei momenti di calo fisico o mentale è quel qualcosa capace di darti la forza giusta mentre giochi. Soprattutto nei momenti in cui la palla scotta, se sei un giocatore come me, il pubblico può essere un fattore decisivo (come dimostrato in gara 1).



I: “Quest’ ultimo anno che hai passato a Piacenza è stato l’ennesimo in un posto diverso. Come ti sei trovato? Qual è il rapporto con Piacenza città?”
A: “Piacenza per motivi personali la conoscevo già da prima, anche se non come ambiente cestistico. Come città mi son trovato benissimo, c’è una grande passione per la pallacanestro.”
I: “Se avessi la possibilità di mettere il canestro della vittoria, preferiresti che fosse una tripla in step-back o un poster? 

Piccola parentesi: spieghiamo, per i lettori che non lo sapessero, in cosa consiste uno step-back o un poster. Il primo è un movimento utilizzato per creare spazio tra l'attaccante e il difensore col fine di avere un tiro meno contrastato, che consiste nel fare un passo indietro (step=passo e back=indietro), mentre il secondo consiste semplicemente in una schiacciata con un difensore vicino al ferro che tenta (invano) di difenderlo.
A: “Senza dubbio un poster, carica di più te ed il pubblico.”

I: “Un aneddoto particolare della tua carriera?”
A: “Durante la mia prima stagione da professionista ad Agropoli, a 17 anni, in allenamento mi capitava spesso di marcare Terrence Roderick. Le poche volte in cui mi capitava di riuscire a difendere bene lui tendeva ad innervosirsi, ripetendo sempre la stessa frase :’Oh shit’. Nel momento in cui diceva quella frase, tu già sapevi che ti avrebbe mandato al bar e sarebbe andato a schiacciare comodamente.
I: “Ti piacerebbe allenare un giorno? Se in questo momento tu potessi allenare un giocatore, chi ti piacerebbe allenare?”
A: “Diciamo che non sarei un ottimo coach, dato che non ho molta pazienza come carattere, però se dovessi allenare qualcuno... allenerei me stesso! Devo migliorare su tantissimi aspetti, sia dal punto di vista mentale che da quello tecnico-tattico: una maggiore solidità, migliorare il tiro dalla lunga distanza, le letture in campo.”
I: “Grazie mille per il tempo che mi hai concesso, in bocca al lupo per il proseguimento di questi Playoff.”
A: “Un saluto agli amici lettori del blog, crepi il lupo!”

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